La distinzione dei ruoli fa bene alla democrazia

Riceviamo da Roberto Drei e pubblichiamo


Da molto tempo, come è noto, la politica italiana nel suo complesso non gode di una buona immagine presso gli elettori che, sempre in maggior numero, disertano le urne in occasione delle varie consultazioni elettorali.
Né sembra che gli elettori effettuino particolari distinguo a seconda del tipo di elezione; siano esse amministrative o politiche, oramai il partito dei non votanti è, per consistenza e numero, il primo partito italiano.

La disaffezione verso il voto che il secondo comma dell’articolo 48 della nostra Costituzione definisce “un dovere civico”, è cresciuta negli ultimi decenni ed ha delle motivazioni molto forti.

La prima è che a seguito delle ruberie e degli illeciti con rilevanza penale, compiuti dal “ceto politico” in generale e senza distinzione di appartenenza partitica (da destra a sinistra e passando per il centro), si è rotto quel “legame fiduciario” che, per molti anni, ha caratterizzato il rapporto fra il cittadino elettore ed il partito.

Da Mani Pulite in avanti, la situazione è venuta aggravandosi con il risultato che la corruzione ha coinvolto sempre più il ceto politico ed il sistema dei partiti, generando una diffusa diffidenza, a prescindere, nei confronti di chi fa politica e dunque l’aumento del numero dei cittadini che non si recano più a votare.

Ma insieme a questa motivazione ve ne è anche una seconda, altrettanto importante che ha contribuito a rafforzare il clima di sfiducia nei confronti della politica e dei suoi protagonisti.

Si tratta della facilità con cui i politici cambiano la loro appartenenza politica, abbandonando, una volta eletti, la formazione nella quale erano stati candidati.

Questo inveterato costume italiano dei trasformisti o, se preferite, dei voltagabbana, è assai diffuso.

Dall’insediamento dell’attuale legislatura (cioè da un anno e mezzo), sono stati ben 160 i parlamentari che hanno cambiato casacca.

Per l’esattezza 81 alla Camera e 79 al Senato, grazie a regolamenti e norme che consentono il cambio di fronte.

Una modalità che penalizza la volontà popolare di chi li ha votati facendo crescere, come sola protesta praticabile, la rinuncia all’esercizio del voto.

Gli eletti che passano da una casa politica all’altra, senza alcuna remora di sorta, tradiscono una regola fondamentale del gioco democratico, ovvero quella della “appartenenza politica”.

Se si è eletti in una determinata lista e ciò vale per il parlamento ma anche per un consiglio regionale, provinciale o comunale, si fa parte della maggioranza, nel caso questa abbia vinto le elezioni, o della opposizione, nel caso si appartenga ad una lista che le elezioni le ha perse.

Di conseguenza, ruoli e funzioni sono perfettamente delineati sulla base dei programmi e degli obiettivi con cui è stata fatta la campagna elettorale e sulla base dei quali, presupposto da non dimenticare, gli elettori si sono espressi.

Di qui nasce il principio della “distinzione dei ruoli” fra maggioranza ed opposizione.

A chi governa spetta attuare i programmi presentati in campagna elettorale, a chi non governa compete svolgere un’altrettanta importante funzione di controllo sulla corretta attuazione di detti programmi e sulla gestione della nazione, di una regione, di una provincia, o di un comune.

Questo principio non può essere ignorato, né tradito, perché chi ci ha votato e ci ha permesso di sedere in un organismo elettivo (Parlamento, Regione, Provincia o Comune), lo ha fatto sulla base dei programmi che ogni lista ha presentato e che gli elettori hanno scelto di votare.

Al momento del voto ogni lista ha contratto, con gli elettori, un impegno politico sulla cui base ha chiesto il voto.

I programmi potevano avere anche punti di contatto, ma rimangono sostanzialmente diversi così come gli obiettivi che ogni lista, prima del voto, ha dichiarato di volere attuare, in caso di vittoria.

L’andare in soccorso del vincitore nel tentativo, spesso inutile, di modificare la linea di azione di chi governa, serve a ben poco perché il vincitore detenendo la maggioranza decide come meglio crede e, alla fine, i voti di astensione vengono letti come un consenso, ancorché parziale, offerto sulle scelte di chi governa valorizzandone l’operato.

E poiché fino ad oggi, (vedasi, da ultimo, la discussione sul bilancio di previsione del Comune di Lugo), la maggioranza non ha voluto, ancorché sollecitata, tenere in alcun conto i suggerimenti provenienti dai gruppi di minoranza, si deve rispettare il mandato che il 40% degli elettori lughesi hanno conferito alla lista “per la Buona Politica”, perché se la lista saprà fare un buon lavoro di controllo puntuale e di verifica sull’operato della Giunta Ranalli, tutta la città ne avrà vantaggio.

Roberto Drei
Consigliere del gruppo “per la Buona Politica”

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