Un padre e un figlio nella bufera della guerra

La nuova rubrica del venerdì 

di Giacomo Casadio 

1a puntata 

La storia che voglio raccontare comincia molto tempo fa nella nostra città.


La mia famiglia non può vantare nobili origini e nemmeno il cognome indica l’appartenenza ad un rilevante ceto sociale, dato che Casadio è un ceppo familiare che denota una precisa provenienza: l’affidamento ad un istituto religioso, dopo un abbandono per incuria o necessità, che attribuisce alla parola un significato quasi anonimo. Sono tanti in Italia i Casadio (casa+Dio), Casadei (genitivo di Deus), Sperandio, Diotisalvi, Diotaiuti, Laudadio, Esposito, Degli Innocenti, Colombo, D’Angelo, Teodoro, che nella notte dei tempi furono lasciati alle porte dei conventi in quanto figli della colpa, cioè di ragazze-madri, che, bollate ormai a vita erano praticamente nella impossibilità di garantire la sopravvivenza del proprio figlio. Erano anche figli legittimi di coppie regolarmente sposate, che, in concomitanza di gravi congiunture economiche e sociali, come carestie, guerre, epidemie, malattie, venivano sacrificati in quanto rappresentavano bocche in più da sfamare.

Non sto parlando del Medio Evo ma del 1800 che garantiva maggiore libertà di vita sociale ma non prevedeva una legislazione familiare rivolta soprattutto alle donne e ai bambini.

Naturalmente la mortalità infantile tra gli esposti era spaventosa arrivando anche all’80% del totale. Computi statistici dimostrano un dato curioso: il 60% dei bambini abbandonati nasceva alla fine dell’inverno o nella piena primavera perché da maggio a luglio occorreva una massiccia partecipazione di manodopera femminile per la mietitura del grano e del fieno, mentre a settembre e ottobre c’era bisogno di operaie per la vendemmia o per la raccolta delle castagne. Queste necessità agricole presupponevano una condizione di promiscuità che favoriva le unioni clandestine.

Questi poveri neonati venivano abbandonati preferibilmente durante le ore notturne, nei posti più disparati, lungo le strade, sui gradini delle case di famiglie benestanti o sulla soglia delle chiese, lasciati al freddo e spesso in balia delle bestie randagie.

L’uso della ruota su cui adagiare i piccoli si diffuse rapidamente assumendo nomi diversi a seconda della località o della modalità di esposizione.

Conventi e ospedali se ne dotarono stabilmente: il neonato veniva posato su questa specie di armadietto rotante, che spinto verso l’interno inseriva i piccoli dentro la struttura abbandonandolo per sempre nell’anonimato.

Al collo del bambino veniva legato un cordoncino con una targhetta raffigurante da un lato l’immagine della Madonna e dall’altro il numero di matricola d’ingresso nella struttura.

Un addetto all’accettazione procedeva ad annotare su un libro il giorno e l’ora della consegna premurandosi di assegnare al piccolo un nome e un cognome, qualora non ne avesse uno proprio segnalato tra gli effetti personali.

Da qui nacquero quei cognomi convenzionali che avevano un significato religioso quasi a voler trasmettere una qualche protezione celeste.

La ruota pur aspramente detestata rimase in vita fino alla fine dell’Ottocento.


Giacomo Casadio

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