Un padre e un figlio nella bufera della guerra

8a puntata
di Giacomo Casadio


Gli operai erano inquadrati nelle Unità Lavoratori e suddivisi in centurie, compagnie, gruppi e raggruppamenti.

Il contratto aveva la durata di cinque mesi, la paga minima era di 25 lire giornaliere per i manovali, la massima di 35 lire giornaliere per gli operai specializzati, per una giornata di lavoro di dieci ore, e mezza giornata di riposo settimanale. A volte si istituivano turni notturni e si distribuivano lavori a cottimo.

Agli operai spettavano le spese per il trasferimento al cantiere e per il vitto, spesso carente. Gli alloggiamenti erano costituiti da baracche o da tende.

Il Maresciallo De Bono, governatore dell’Eritrea, (lo stesso che il 25 luglio 1943 votò la sfiducia a Mussolini e che poi fu arrestato e fucilato a Verona come traditore) non nascose al Duce le difficili condizioni in cui gli operai erano costretti a lavorare:

La questione dello alloggiamento, vettovagliamento, et assistenza morale et religiosa di questa massa operaia fu questione gravemente seria […] vi sono state molte lamentele […] dipendenti molto da promesse fatte in patria agli operai che esorbitavano dagli impegni bilaterali di contratto […] molti operai sono qui venuti senza volersi formare la coscienza dei sacrifici ai quali devono sottostare. Si aspettavano miracoli ma il miracolismo est antifascista.” (Telegramma di De Bono a Mussolini del 12 luglio del 1935).


Il 1937 inizia con prospettive non molto rosee sia per i genitori a Lugo che per il figlio lontano e già stanco dell’Africa, anche se manca molto alla fine della ferma.

Gigetto vuole informazioni sulla guerra di Spagna, se vengono mandati italiani a combattere,

“…perché quà si parla di un invio clandestino di truppe da parte dell’Italia sotto falsa motivazione di lavoro e quando giunti colà imbracciano le armi a favore dei nazionalisti…”

Ciò che si ipotizza all’accampamento di Luigi è vero e mette in agitazione i legionari, ma nulla succede di concreto.

Le settimane trascorrono sempre uguali e Celso manda al figlio la copia di una lettera da presentare al Vicerè d’Etiopia Maresciallo Rodolfo Graziani nella quale Gigetto manifesta la sua intenzione di rimanere in A.O. come postelegrafonico oppure ferroviere, adducendo a supporto anche il fatto di essere figlio di un onesto impiegato nei sindacati di Lugo e un apprezzato scrittore di opere. La lettera sarà spedita ma non otterrà mai risposta, ovviamente.

A febbraio 1937 Luigi informa i genitori che la sua “rafferma” si concluderà il 20 Marzo ma ritiene che non sarà a casa prima di giugno, sicuro che “l’affare della Spagna” sarà già sbrigato al suo ritorno:

“… ed allora ci affideremo alla volontà del destino, poi d’altra parte dovessero mandarmi in Spagna quasi sempre meglio dell’Africa attuale.

Il denaro risparmiato si avvicinerà alle 4mila lire alla fine della ferma. In fondo capisco anch’io che non è una gran somma ma però mi permetterà di farmi avere un discreto banco di merce e riprendere la mia attività di ambulante mille volte migliore di quella dell’Africa, perché lo sappiate sono già quasi nove mesi che non mi sono ancora levato i calzoni per andare a dormire perché la notte fa troppo freddo e poi perché non ci sono anche le possibilità di farlo, pieno di pidocchi come un cane, nonostante faccia bollire i vestiti e di pulci insomma in questo stato non si può più vivere a lungo.

A constatazione fatta, la percentuale dei rimpatriati della mia compagnia (562 uomini) è stata del 90%, sono rimasti gli autisti, i furieri, i cucinieri e qualche altro. Qualora il mio commercio non dovesse andar bene allora ritornerò ancora quaggiù ma non subito però perché l’operaio attualmente è trattato ancor peggio del militare perché con la scusa di dire che guadagna abbastanza gli danno da mangiare male e così non può secondo le sue intenzioni rimanersi molti soldi in pochi mesi ed è costretto perciò a rimanerci più a lungo e questo sempre a vantaggio del signor governo…

Capisco bene la vostra preoccupazione per me in caso dovessi essere inviato in Spagna, ma se il destino vuole così è segno che così è stato predestinato, in fin dei conti non sono più un bambino da farmi paura i pericoli ed i disagi della guerra, mi sento anzi che affronterei meglio quelli della guerra che dei disagi che sto facendo.

Meglio dunque combattere un nemico in campo aperto, che combattere contro i disagi ed i pericoli maggiori sempre in agguato in queste zone d’inferno, in fondo anche volessi andare io volontario non farei altro che il mio dovere di buon fascista, perché trattandosi non di affari interni spagnuoli ma bensì di una lotta di due nuovi partiti ed uno dei due per forza dovrà soccombere oggi o domani, e poi in fondo io quest’anno esco dagli obblighi di star sottoposto al padre perché compio i 25 anni.”

Il 19 febbraio 1937 Celso rimanda al figlio la copia della supplica a Graziani da parte del legionario Luigi Casadio rivolta ad ottenere un posto fisso in A.O.

Lo stesso giorno Graziani è oggetto di un attentato che gli procura gravi ferite e lo lascia a lungo fra la vita e la morte. La conseguente rappresaglia dell’esercito italiano è di una feroce rapidità e produce diverse migliaia di vittime fra gli abissini, con scenari orripilanti.

Fin dall’inizio della sua nomina a Vicerè d’Etiopia Graziani attuò una dura opera di repressione nei confronti degli indigeni: furono istituiti campi di prigionia, erette forche pubbliche e uccisi i rivoltosi.

Graziani ordinò di uccidere i ribelli catturati gettandoli dagli aerei in volo. Molti militari si fecero riprendere dai fotografi accanto ai cadaveri penzolanti dalle forche o inginocchiati intorno a ceste piene di teste mozzate. Per tutti questi fatti, dai giornali italiani del dopoguerra Graziani fu soprannominato “il macellaio d’Etiopia”. 




Alla fine del conflitto mondiale fu
inserito nella lista dei criminali di guerra su richiesta
dell’Etiopia per l’uso di gas tossici e bombardamenti degli ospedali
della Croce Rossa ma subito non venne processato.
Nel 1950 fu invece processato e
condannato a 19 anni di carcere per l’adesione alla Repubblica di
Salò, di cui fu ministro della Difesa, ma 12 gli furono condonati e
dopo quattro mesi fu scarcerato. Morì nel 1955 ad Affile, vicino a
Roma. Nel 2017 il sindaco e due assessori sono stati condannati per
apologia di fascismo per aver eretto un sacrario dedicato a lui,
tuttora vergognoso richiamo per nostalgici vecchi e nuovi.


Giacomo Casadio

Ultime Notizie

Rubriche