Riceviamo e pubblichiamo
L’edizione 2020 del
seminario di fine settembre, è stata realizzata anche in questo anno
“pandemico” come momento di resistenza e di RIPENSAMENTO.
Ad
esempio, per ripensare al diffuso “desiderio di ritorno alla
normalità”… Ma di quale normalità vogliamo parlare?? Quella del
C02 a tonnellate in ambiente? Delle calotte glaciali in
discioglimento? Della salinificazione delle foci dei fiumi? Delle
microplastiche negli oceani e nelle piogge? Per non dire di altri
guasti come la radioattività o l’elettrosmog! Urge
ripensare all’orizzonte di senso del nostro esserci, alle mappe di
significato del nostro agire. Abbiamo chiesto
un aiuto a Luigina Mortari, la pedagogista che negli ultimi anni ha
impresso una svolta al concetto di cura; non più
considerata una tra le tante dimensioni importanti dell’esistenza, ma
riconosciuta come priorità ontologica dell’esistenza stessa, della
condizione umana.
“Secondo
gli antichi greci, nel mito della creazione del dio Kronos, il
compito dell’essere umano è di avere cura della vita”.
Occorre acquisire la convinzione che “tutti
hanno necessità vitale di ricevere cura e di avere cura, perché
l’esistenza nella sua essenza è cura dell’esistere”. Tutti
abbiamo bisogno “di essere accuditi perché
questa è la condizione necessaria affinché si dischiudano le stesse
possibilità di vita per ciascuno, ma, allo stesso tempo, si ha
bisogno di avere cura di sé, degli altri e del mondo per costruire
il significato dell’ esistenza.”
La nostra
relatrice dopo aver promosso in questi anni la pratica dell’aver cura
verso gli altri e
verso il mondo, ha
proseguito il suo percorso, con il suo ultimo recente testo “Aver
cura di sé” indirizzando il suo pensiero e la nostra
attenzione sul nostro baricentro. Una riflessione necessaria, in
tempi in cui siamo sospesi tra narcisismo e rimozione
dell’interiorità, tra un’immagine di soggetto sempre più
proprietario e consumatore e un’idea di soggetto spettatore passivo,
incapace di porsi la domanda sulla buona qualità della vita.
Luigina Mortari,
attraverso la sua esperienza di maestra e formatrice, ha sottolineato
come tutti noi nasciamo col compito e la preoccupazione della cura
della vita. Una tensione che non può e non deve essere accumulativa
cercando unicamente protezione e sicurezza ammassando cose, ma
indirizzata ad una pratica formativa, trasformativa e riflessiva . E’
necessario uscire dalla logica di Heidegger che riduce l’esserci ad
un essere gettato nel mondo, alimentando ansia, paura e angoscia;
occorre recuperare e riconoscere il valore del gesto materno
dell’abbraccio che ci accoglie nel mondo. Educare
deriva dal latino e significa coltivare, allevare, avere cura:
“fornire il bambino, quel seme davanti a
noi, di tutto ciò di cui necessita per fiorire e per svilupparsi al
meglio possibile (…) Skolè significa scuola-ozio, è l’ente ove
si rende possibile coltivare l’anima al meglio (…) Psiké
significa anima-farfalla: l’anima del bambino va trattata con
molta cura perché delicata come le ali di farfalla (…)
Così come si
buttano le pesche guaste dalla busta della spesa, non si può
liberare l’anima dall’esperienza negativa passata, conscia o
inconscia: il contatto con l’altro lascia impronte nell’anima, come
nel pongo, soprattutto dei bambini che, per questo, nel loro viatico
scolastico dovrebbero essere circondati dai maestri migliori, dalle
persone più adatte al lavoro di insegnante”.
Secondo Aristotele tutti
gli esseri cercano il bene. E, la ricerca delle cose degne d’amore,
implica la tenerezza della mente, che equivale al contrario della
durezza. Uno strumento privilegiato per la ricerca del bene è il
dialogo. Se la discussione
equivale a imporre un pensiero ed esercitare
il potere della parola per convincere,
dialogare
nella sua traduzione dal greco, significa legarsi
– collegarsi – al pensiero dell’altro,
per far sì che alla fine del dialogo non ci siano solo 2 pensieri –
il mio e il tuo – ma se ne sia formato un terzo dove entrambi
convivono.
Noi abbiamo bisogno di
sentirci nel pensiero dell’altro, soprattutto dei
più vicini, dei più familiari. Certo la cura richiede fatica,
sofferenza, ma, nella giusta misura, è l’unica via: un
atto di cura ricevuto permette a chi lo riceve, di agire per la cura
di un altro, innescando una catena di bene; un atto di violenza allo
stesso modo innesca una catena di sofferenza infinita. La
relatrice chiarisce quale sia la giusta
misura: qualunque dovere/lavoro ha bisogno
del tempo del riposo, e soprattutto di un contorno che ricarichi
delle energie che nell’essere umano sono limitate e non infinite. C’è
bisogno di cura per prendersi cura. Se il rapporto di cura non è
equilibrato la persona si “esaurisce”, ma non in senso di
esaurimento come disperazione; il rapporto risulta più dannoso che a
servizio della cura.
La domanda importante per
aver cura di sé è interrogarsi su “come
stiamo” . “Come stai ?” è infatti la domanda che porgiamo
sempre agli altri, a coloro soprattutto che più ci premono per
affetto, amicizia e stima. Dobbiamo acquisire consapevolezza che
quello che ci fa star bene è anche mettere ordine e quindi giustizia
dentro di noi. In ultima analisi quell’ordine intimo delle cose è
anche l’ordine che desideriamo nel mondo.
Il bene è quello di cui
abbiamo bisogno per fare stare bene non solo il corpo ma anche
l’anima. Si vive nel tempo e l’anima si nutre di istanti di bene. Il
bene è in fondo, diceva Platone, la verità della nostra esistenza,
è stare nell’essenziale.
La
generosità del donare non è il sentirsi vincolati in un astratto
dover essere, quanto invece il cercare l’essenziale. Per questo
occorre darsi il tempo, per fare silenzio interiore, per sentire il
sentire dell’altro, in un processo di autoanalisi dei nostri atti
cognitivi ed affettivi, dove la purezza non cede ai pregiudizi, e la
mitezza non alimenta la nostra pretesa di affermazione. Importante è
“stare nel punto di cura”, un ancoraggio in quello spazio del
nostro esserci dove la responsabilità, il rispetto, il gesto della
gratuità, il dare e il donare il tempo, il tenere lo sguardo sul
reale convivono e fanno della cura un’economia della vita.
(Alice Penazzi, Giuseppe
Camanzi, Gianni Penazzi)