Dunque, ormai ci siamo

 Di Tiziano Conti

Mercoledì 4, alle prime
luci dell’alba in Italia, dovremmo sapere chi sarà il 46°
Presidente degli Stati Uniti.

Probabilmente è meglio
scrivere che “forse” mercoledì conosceremo chi sarà, visto il
clima di incertezza che aleggia su queste elezioni, sia perché Trump
è abituato alle sorprese dell’ultimo minuto (vedi 2016), sia
perché sta agitando mille dubbi (il voto postale, i brogli e chissà
cosa altro ancora).

Alla mia età, il primo
ricordo che ho delle elezioni americane risale all’assassinio di
Bob Kennedy – sicuro candidato democratico alle elezioni del 1968,
poi vinte da Nixon contro Humphrey – che con le nuove domande e
rivendicazioni di quegli anni aveva stabilito un rapporto
privilegiato.

Trump ha cambiato tutti i
paradigmi del discorso pubblico negli Usa. Ha sovvertito regole del
gioco fondamentali di un equilibrio che ha consentito a quel Paese di
non conoscere mai, nella sua storia, dittature o suggestioni
autoritarie. In fondo l’alternarsi di democratici e repubblicani
alla Casa Bianca è sempre avvenuto senza strappi, in continuità. La
democrazia americana ha resistito all’assassinio di John Kennedy,
il presidente più amato di tutti, all’impeachment di Nixon
travolto dal Watergate, all’attentato a Ronald Reagan, alla contesa
sul filo di lana dei cinquecento voti popolari che ballavano in
Florida, tra Al Gore e George W. Bush, risolta dalla Corte Suprema.

Esiste, nella tradizione
di quel paese, l’istituto della “transizione”, della leale
collaborazione tra amministrazione entrante e uscente nel momento del
trapasso dei poteri. Non si avvelenano i pozzi, non si bruciano i
campi: “right or wrong is my country”. (Giusto o sbagliato è il
mio paese).

È in nome di questo
principio che, all’indomani dell’11 settembre 2001, gli
americani, tutti, hanno esposto la loro bandiera dalle finestre delle
loro case.

Ora non è più così. I
toni di odio, la violenza del conflitto che deborda dalla politica
alla persona, il linguaggio carico di intolleranza che si sono
ascoltati nel primo dei dibattiti televisivi tra i due candidati,
distruggono quel tessuto comune, quell’idea di nazione che hanno
accompagnato decine di scontri tra candidati nel dopoguerra. Reagan
non usava quei toni, non li ha usati Carter, non Clinton, non Bush.
Ma neanche gli sconfitti: si chiamassero Mondale o Dukakis, Romney o
Dole.

La linea seguita da Joe
Biden, l’altro candidato, è sempre stata questa: “Non c’è
niente che non possiamo fare se la facciamo insieme: noi siamo gli
Stati Uniti d’America!”, frase che ritroviamo nel video di
Bruce Springsteen presentato alla Convention democratica.

Insieme, non contro.

Se si tende a cercare
sempre il nemico, andando oltre alle battute più o meno felici, più
o meno volgari, di un dibattito televisivo (Nancy Pelosi, Presidente
della Camera, definita una “donna malata, con problemi mentali”,
oppure “Liberate il Michigan” e l’FBI sventa il tentativo di
rapimento della Governatrice Gretchen Whitmer), poi il clima si
incanala in tutti i settori della vita di un Paese provato, come il
mondo intero, da un tempo di incertezza e di paura, a cui di recente
si è aggiunto anche il Covid 19.

Così compaiono milizie
organizzate e fanatici estremisti che si propongono di “mantenere
l’ordine” o dichiarano che andranno davanti ai seggi elettorali,
con le armi in bella vista.

Ma la campagna elettorale
più radicalizzata della storia americana non è affatto una buona
notizia. Non lo è per il mondo. Non lo è per la tenuta e il futuro
della democrazia di quel grande, decisivo, Paese.

Tiziano Conti

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