di Armanda Capucci
Il Natale dei nonni
In
tempo di Covid si fanno molti confronti: Natale oggi, Natale ieri. Ci
si lamenta perché quest’anno sarà un Natale “diverso” per
vari motivi. Non si potrà partecipare alla tradizionale messa di
mezzanotte che molte parrocchie anticipavano anche gli anni scorsi,
non si potrà passare da un comune all’altro per il cenone di
Natale e quello di Capodanno e, poi, “con meno regali di Natale la
gente si deprime”. Peccato! Eppure, dai primi giorni di novembre,
nei negozi erano già esposti tutti gli ingredienti del Natale
consumistico: panettoni, dolci, pacchi dono, alberelli di Natale,
luminarie. Ed anche le strade e le piazze sono illuminate a
cancellare quel grigiore e quella depressione che ci invadono ormai
da molti mesi.
Ma, al tempo dei nonni il Natale era lontano anni luce
da quello moderno. Non era certo colpa del Covid, ma quanto a
festeggiare, per grandi e piccini, era davvero un’altra cosa. Ci si
preparava appena qualche giorno prima e la vigilia era un giorno
speciale, quasi più bello del giorno di Natale. I bambini andavano a
raccogliere il bel muschio verde lungo le rive dei fossi per fare il
presepe e rientravano in casa infreddoliti a scaldarsi davanti al
grande camino sempre acceso; di solito era un presepe povero con
poche statuette, qualche tronco per la capanna, le pecorelle di
ovatta e la farina per fare la neve, eppure, per tutti era un momento
di gioia. Non esisteva l’albero di Natale, importato soltanto dopo
la seconda Guerra mondiale, non si facevano regali se non caramelle o
qualche arancia, rimandati alla Befana per i più piccoli. La sera
della Vigilia gli uomini della famiglia mettevano a bruciare nel
camino e “zoc d’ Nadèl”, il ciocco di Natale, un grosso
tronco che doveva bruciare ininterrottamente fino alla sera del
giorno dopo: non si poteva spegnere perché sarebbe stato di cattivo
augurio e tutti, grandi e piccini, si divertivano con lo “zampino”
a stuzzicarlo per far salire una miriade di scintille lungo la cappa
del camino: più numerose erano, più fortunato sarebbe stato l’anno
successivo.
La cucina era l’unico luogo riscaldato della casa, a
meno che la famiglia non fosse benestante e disponesse anche di
qualche stufa. La mattina della vigila, le donne si alzavano di buon’
ora per fare il pane fresco da cuocere nel forno che si trovava di
fronte alla casa accanto al pollaio ed al porcile e, nel pomeriggio,
preparavano il pranzo di Natale. L’azdora faceva la sfoglia, le
altre donne grattavano il parmigiano per fare il “batù”, il
ripieno per i cappelletti a confezionare i quali partecipava tutta la
famiglia, anche gli uomini, e guai a chi sbagliava a ripiegare nel
modo giusto il quadretto di pasta ripieno! Nel forno a legna si
cuocevano anche l’arrosto e la ciambella con gli zuccherini, “i
zucaren”. Era il massimo, ed un profumo delizioso di cose buone si
spandeva nell’aria. I panettoni sarebbero stati importati
anch’essi, molti anni dopo. In qualche famiglia un po’ meno
povera, la mamma preparava anche la zuppa inglese che era una crema
squisita. Poi, si attendeva la sera per la messa di mezzanotte.
Si
mettevano a letto presto i bambini sorvegliati dai nonni mentre gli
adulti più giovani, intabarrati nei loro mantelli si avviavano a
piedi verso la chiesa; non un’ automobile, solo qualche rara
bicicletta. La campagna si animava; si incamminavano per le strade
buie illuminate soltanto dalla luna ma, quasi ogni anno, a Natale,
c’era una bella sorpresa: la neve. Allora le ombre si stagliavano
lunghe in quel chiarore perché i lampioni illuminavano soltanto la
piazza principale e quella della chiesa: era bello guardare in alto,
nel fascio di luce, la neve che fioccava lenta ad imbiancare col suo
manto quella santa notte. Non alberi addobbati, non luminarie, ma
tanta gioia nel cuore. La mattina di Natale, i bambini si svegliavano
al profumo del latte fresco e del buon brodo per i cappelletti, già
messo a bollire nella pentola con il cappone ed il manzo, che la
famiglia si poteva permettere soltanto qualche volta all’anno. E il
pranzo era pieno d’allegria. Nel pomeriggio i piccoli giocavano e
si rincorrevano fra i piedi degli adulti che sonnecchiavano intorno
al camino, se non giungeva qualche rara visita di parenti, oppure si
divertivano a giocare a carte. Non c’erano altri passatempi
perché, prima degli anni ’40 nessuno possedeva la radio e
tantomeno la televisione che arrivò soltanto negli anni ’60. Il
giorno di Santo Stefano si faceva ancora festa, ancora a tavola per
terminare gli avanzi e qualcosa di buono rimaneva anche per
Capodanno. Lo attendevano soprattutto i bambini che correvano a
frotte per le strade e sostavano davanti alle abitazioni ad augurare
un buon anno nuovo in cambio di una piccola mancia: “Bon dè, bon
an, Dio av déga un bo guadagn, in tla stala, in te stalett int la
bisaca de curpett….”.
Le donne, quel giorno, dovevano chiudersi
in casa perché secondo la tradizione incontrarle “portava
disgrazia”. Nel secondo dopoguerra, però, cominciarono a
comparire i veglioni di Capodanno e i giovani, ragazzi e ragazze,
come risvegliati da un lungo torpore, riempivano le sale da ballo.
Restava ancora una festa, l’ultima, fatta per i bambini, che ha
sfidato la tradizione e rimane ancor oggi: l’Epifania con i suoi
Magi, ma anche con la Befana che portava i suoi doni ai più buoni,
scendendo dal camino per riempire la vecchia calza della nonna,
appesa con ansia la sera prima di andare a letto. Doni semplici, ma
fatti con tanto amore, con i pochi risparmi delle mamme. Poi,
l’Epifania, detta comunemente “la Pasquetta”, metteva “tutte
le feste in una cassetta” e non se ne parlava più fino alla vera
Pasqua.
(A. Capucci)