Un politico è qualcuno che pensa alle prossime elezioni, mentre lo statista pensa alla generazione futura. Il politico pensa al successo del suo partito, lo statista al bene del suo Paese.
La citazione, ripresa da Alcide De Gasperi, è del teologo statunitense James Freeman Clarke (1810-1888).
In questi giorni, in cui ricorre l’anniversario del rapimento di Aldo Moro (16 marzo 1978), ci aiuta a riflettere su alcuni aspetti della sua vita politica e sociale.
Nel suo ultimo libro Giorgio Balzoni, giornalista parlamentare, che di Aldo Moro fu allievo universitario, ricorda una frase che gli disse il capo-scorta di Moro, Oreste Leonardi, ucciso il giorno del rapimento di Moro, insieme a tutta la scorta. Prima della deriva sanguinaria, Moro sperava ancora di poter evitare il peggio attraverso il dialogo. “Ma sai cosa si è messo in testa il Capo? Portare le Brigate rosse in Parlamento”. Era il 1974, non c’era stata ancora la scia di sangue di quel movimento eversivo, e Moro, da educatore e uomo del dialogo, intravedeva una strada ancora possibile per evitare il peggio. Lo confidava il maresciallo Oreste Leonardi, il suo capo-scorta, l’uomo che ne raccoglieva, spesso, le riflessioni più intime, parlando con Giorgio Balzoni, che aveva da poco superato l’esame di diritto e procedura penale alla Sapienza, ma non aveva smesso di frequentare quel professore che, ai vertici della politica italiana, trovava modo di dedicare tanto tempo ai suoi allievi. Anche quel giorno lo trovò impegnato a discutere con alcuni di loro, nel corridoio, dopo la lezione e allora Balzoni ripiegò a colloquiare col capo-scorta che, incrociando ironia e scetticismo nel giovane interlocutore, consapevole dell’enormità della sua affermazione, lo spinse a non banalizzare: “C’è poco da ridere. Lo sai che lui vede il futuro con anni d’anticipo”.
Balzoni, a lungo giornalista Rai ed ex vicedirettore del Tg1, che con Aldo Moro il professore (libro che ha ispirato l’omonimo docufilm di Raiuno, con Sergio Castellitto) aveva acceso un faro su un aspetto meno istituzionale e poco conosciuto dello statista (il Moro docente, giurista, politico, ma soprattutto uomo, amante del cinema e del Sud Italia), ora prosegue su quel filone e con Aldo Moro e le Brigate Rosse in Parlamento (Lastaria edizioni) prende in considerazione l’ipotesi che Moro nell’interrogarsi sulla protesta giovanile, favorendo il dialogo con gli studenti, si fosse spinto fino a cercarlo anche con gli eversori che avrebbero poi decretato la sua morte.
Gli indizi che Balzoni mette in fila sono tanti. A partire dalla convocazione a Palazzo Chigi, dopo gli scontri di Valle Giulia nel Sessantotto, dei leader del movimento studentesco, per provare a capire le ragioni della protesta che già si stava facendo violenta. Così, quando in università i leader del movimento lo sfidarono, interrompendo la lezione e lo invitarono a venire in assemblea, lui non si tirò indietro, e il confronto, in cui mostrò di condividere molte ragioni della protesta, si chiuse con un inaspettato applauso.
Pierluigi Castagnetti, già parlamentare italiano ed europeo, ricorda quello che, sfuggito a resoconti ufficiali, fu il suo vero ultimo discorso, a Bologna, dedicato a parlare per due ore di fila della celebre foto del giovane in piazza col passamontagna e la pistola puntata, divenuta simbolo degli anni di piombo: “Quando un giovane impugna la P38 – disse – vuol dire che non ha più fiducia nella possibilità di cambiare le cose con la democrazia”.
Alla fine non andò così tra Aldo Moro e le Brigate Rosse, ma le vicende recenti della riconciliazione con le vittime, la stima che oggi gli esprimono tanti del “partito armato” di allora, confermano come quell’idea non fosse così strampalata.
I tempi purtroppo non erano maturi, ma uno statista deve saper guardare lontano.
Tiziano Conti