La fiducia concorre ad alimentare l’affidabilità, la diffidenza, invece, crea opportunismo. Questo è un dato tanto fondamentale quanto trascurato.
Nella sua autobiografia, David Packard, il fondatore della Hewlett-Packard, a un certo punto scrive: “Sul finire degli anni ‘30 i capi dell’azienda dove lavoravo erano particolarmente attenti alla sicurezza degli impianti, per evitare che gli operai potessero portarseli via. Come risposta a questa ovvia manifestazione di sfiducia molti operai si sentivano giustificati e rubavano ogni qual volta ne avevano la possibilità. Quando fondammo la Hp, questi ricordi erano ancora vivi e per questo decidemmo che i nostri magazzini dei componenti e degli attrezzi sarebbero sempre rimasti aperti. Questo ci avvantaggiò in due modi: innanzitutto risparmiammo sulla sorveglianza, ma soprattutto creammo un clima di fiducia che divenne il centro intorno al quale la HP fa ruotare il suo modo di fare affari”.
Mi fido di te perché credo tu sia affidabile: quindi il passaggio va dalla affidabilità alla fiducia.
È il fatto di ritenerti affidabile che causa la mia decisione di fidarmi. Ma come abbiamo visto questa è solo una parte della storia, la più banale. L’altra parte della storia ci dice che la mia fiducia suscita, almeno in parte, la tua affidabilità. Qui il nesso causale è invertito.
Lo stesso messaggio si può, naturalmente, applicare a molti altri ambiti della vita sociale, politica, economica, alla scuola, alla famiglia. Quando qualcuno si fida di me, questo fatto, già di per sé, costituisce una ragione ulteriore perché io mi dimostri affidabile.
Fidarsi di qualcuno significa innanzitutto instaurare una relazione interpersonale e, nell’ambito di questa relazione, operare insieme per il raggiungimento di uno stato di cose migliore rispetto allo status quo, rispetto a quello, cioè, che si sarebbe determinato qualora si fosse deciso di non fidarsi.
Ma alla possibilità di un potenziale vantaggio fa da naturale contraltare il rischio connesso al tradimento della fiducia, alla tentazione dell’opportunismo. I due elementi sono così strettamente legati che David Hume (filosofo scozzese del Settecento) li riteneva concettualmente inseparabili: “È impossibile separare la prospettiva di un bene dal rischio di un male”, scriveva.
Prima di lui la storia dell’umanità ce lo dimostra efficacemente.
Fidarsi, dunque, vuol dire rischiare! Si rischia perché ci rendiamo volontariamente vulnerabili agli altri, all’impossibilità di controllo del loro comportamento, del loro libero arbitrio.
Gran parte del nostro stare insieme, allora, del nostro vivere in società può essere descritto come un continuo oscillare tra la necessità di fidarsi degli altri e il tentativo di ridurre il rischio legato a tale apertura: questi momenti non sono separati, ma – al contrario – strettamente connessi, quasi conseguenza l’uno dell’altro.
Perché fidarsi significa già ridurre i rischi della fiducia. È questo fatto che rende i fenomeni fiduciari una vera sfida di umanità.
Ma in fondo ogni relazione interpersonale è nel suo intimo paradossale. Andare alla ricerca delle radici di ciò che vuol dire “fidarsi”, ci sfida a gettare uno spiraglio di luce nell’ombra di questa intimità.
In ogni caso, lavorare sulla fiducia genera meccanismi che gettano un seme dentro le persone che ci stanno accanto!
Tiziano Conti