Il risultato elettorale del 25 settembre non ha lasciato dubbi sulla netta scelta di campo che gli italiani hanno fatto per il governo del Paese nei prossimi cinque anni; chi avverte un profondo senso di delusione – come chi scrive – non può pensare che il sistema democratico sia il migliore possibile solo quando la propria parte ha il sopravvento, ma deve ora organizzarsi per una opposizione efficace e responsabile. E’ auspicabile che entro la fine di questo mese ci sia un Governo con una composizione autorevole, che si metta subito al lavoro perché la situazione di crisi non si è minimamente allentata, anzi ci sono i presupposti che si aggravi per i noti motivi, e questo avrà conseguenze assai pesanti sulle imprese e sulle famiglie, particolarmente quelle più fragili e già duramente colpite dalle ripetute difficoltà di questi ultimi tre anni. Nessuno, quindi, si deve lasciar tentare dalla logica del “tanto peggio, tanto meglio”, pensando di trarre vantaggio politico da eventuali inciampi di chi governa: sarebbe una disgrazia, ripeto, per tutti i nostri concittadini, in particolare per chi è più debole.
Se è vero che durante la campagna elettorale mi sono astenuto – in linea anche con la giusta valutazione prevalente nello schieramento di centro-sinistra – dall’evocare gli scheletri negli armadi dell’altra parte, devo ora togliermi subito il classico “sassolino dalla scarpa”: le prime nomine della nuova maggioranza, considerando anche quella ormai certa di Giorgia Meloni a Primo Ministro, non possono lasciare indifferenti in quanto sono scelte di partito e non degli italiani: la seconda, la terza e la quarta carica dello Stato sono (saranno) coperte da due post-neo-fascisti (i due prefissi mitigano, giustamente) e da uno più volte auto-dichiaratosi sostenitore del aggressore Putin. Ma proprio non c’erano parlamentari la cui storia fosse esente da episodi poco esaltanti e potessero meglio esprimere l’indipendenza dei ruoli e la garanzia di equità?
Mondo economico e società civile avranno alla testa un Governo legittimo e ora spetta a questo dimostrare che ha avuto un senso aver tolto la fiducia al governo Draghi dieci mesi prima della scadenza naturale ed averlo spedito a casa: un Governo voluto e nato in situazione di emergenza, con vasti consensi e partecipazione istituzionale, che ha ben operato su tutti i versanti nei quali si è cimentato ed al quale qualcuno, a un certo punto, ha deciso di staccare anticipatamente la spina.
Chi ha mandato a casa Draghi deve ora tenere in considerazione il fatto che il primo grande progetto con il quale si dovrà confrontare è il PNRR, per la cui attuazione ci sono altri cinque anni nei quali si dovrà continuare a rinnovare il Paese sul piano delle infrastrutture, della sostenibilità complessiva dei sistemi della produzione e del lavoro, del raggiungimento di più avanzati livelli di integrazione e di coesione sociale: si tratta dell’intervento di più vasta portata che veda il nostro Paese impegnato dal secondo dopoguerra, che tocca quasi tutti i settori in via diretta o indiretta e tutto il territorio nazionale, pur con doverosi aspetti perequativi. Lo stanziamento viene prevalentemente dall’Europa, con una buona parte anche a fondo perduto: il finanziamento avviene su progetti che seguono un iter completo e complesso, da e fino a Bruxelles, e di cui è parte essenziale anche il sistema di controllo: nella realizzazione non sono tollerati scostamenti significativi rispetto agli obiettivi e ripetute mancanze potranno provocare anche la sospensione o la revoca del PNRR stesso.
Chi ha mandato a casa Draghi deve tenere conto che, dall’attuazione del PNRR passano non solo la rigenerazione delle strutture ma, attraverso queste, la ripresa del lavoro con conseguente riduzione delle sacche di disoccupazione, innanzi tutto di quella giovanile, la riduzione della dipendenza energetica con sviluppo delle “rinnovabili” e conseguente aumento della sostenibilità, obiettivi irrinunciabili per una Italia che voglia contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale a livello planetario. Ma non solo il lavoro e l’impresa avranno benefici dall’attuazione del PNRR: pensiamo all’istruzione ed alla formazione professionale, con la prospettiva di un collegamento funzionale scuola-lavoro, alla sanità, alla ricerca scientifica ed al terzo settore, un mondo troppo spesso trascurato che copre in modo sussidiario le esigenze alle quali il settore pubblico, ed ora anche le famiglie, non sono più in grado di provvedere. In tutto questo ci sono già cantieri aperti ed il nuovo Governo dovrà impegnarsi a non rallentarli, anzi dovrà potenziarne le profittabilità per il bene comune.
Chi ha mandato a casa Draghi deve considerare che tutti saremo lieti quando alle nostre tasse sarà applicata la flat tax, anche se, senza sostanziali correttivi risulterebbe iniqua, e qualora si potesse andare in pensione evitando l’attuale inasprimento delle regole, ma senza doversi poi rivolgere al sussidio pubblico per redditi insufficienti. Il problema è come riuscire a dotare di copertura finanziaria situazioni che interessano una platea tanto estesa di cittadini e per le quali sono richieste ingenti risorse aggiuntive.
Chi ha mandato a casa Draghi non deve scordare che non c’è soluzione demografica di qui ad almeno 25 anni che non debba prevedere una cospicua immissione di forze lavoro in Italia che provengono dall’immigrazione già avvenuta e da quella futura. Chi lavorerà nelle nostre fabbriche, nelle campagne e nelle famiglie quando la popolazione attiva autoctona sarà meno della metà di quella complessiva? Chi contribuirà con lavoro attivo al pagamento delle pensioni delle nostre classi degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso se non una stabile ed integrata popolazione “italiana” di immigrazione?
Occorre che chi ha mandato a casa Draghi valuti gli effetti di una politica ostile all’Europa e incerta sul piano internazionale, specialmente in un momento tanto difficile per via del chiaro attacco della Russia (e forse ben presto anche di altri paesi asiatici) al modello occidentale, di cui l’aggressione all’Ucraina potrebbe essere solo il primo episodio. Il Presidente che si avvia a chiudere fra qualche giorno il suo mandato non è solo uomo di elevatissimo profilo internazionale sul piano economico e finanziario, ma da Primo Ministro ha saputo ridare credibilità e autorevolezza all’Italia sul piano politico internazionale ed era all’opera per creare condizioni di riduzione delle disuguaglianze, di accoglienza e di coesione sociale che ben si addicono ad un paese proteso nel Mediterraneo verso popolazioni che fuggono da guerre e miserie e per le quali non servono i tragici respingimenti ma una politica di flussi programmati, in regime di sicurezza e tenendo conto della primaria solidarietà che deve venire dall’Europa.
A Draghi tutti gli italiani devono riconoscenza per quanto ha fatto, ma il termine del suo mandato, 10 mesi più o meno, sarebbe poi giunto, quindi non serve continuare ad evocarlo. Il percorso che deve compiere il nostro Paese a partire dalle prossime settimane deve, invece, andare in continuità e non in contrasto con il lavoro impostato in questo anno e mezzo e a ciò serviranno politiche realistiche e autorevoli, che scordino il clima perenne da compagna elettorale, ed un’opposizione vigile e responsabile perché in palio non ci sono più maggioranze ad assetti fissi o variabili ma la tenuta economica e sociale di un Paese che deve ancora affrontare la parte più difficile della profonda crisi che lo sta attraversando, ma che può avere tutte le risorse materiali e morali per superarla.