SESSANT’ANNI FA UN GRIDO PROFETICO CHE CONTINUA AD INTERROGARCI
“WE HAVE A DREAM”
di RAFFAELE CLO’
Il 28 agosto 1963, nella vasta spianata difronte al Lincoln Memorial di Washington, il reverendo Martin Luther King, alla testa di una moltitudine di persone che lì era confluita, parlò ai presenti, al suo Paese e al mondo intero e chiese con forza che il futuro non riservasse più disuguaglianze, maltrattamenti e ingiustizie a tanta parte della popolazione ma si potessero ottenere condizioni per le quali i neri e i bianchi potessero godere dei diritti fondamentali di ogni cittadino.
Si è scritto tanto, e certamente in modo assi più autorevole, su quel grido “I have a dream”, sul suo valore umano e sul contesto politico (le attese conseguenti la proposta della “nuova frontiera” Kennediana) nel quale fu pronunciata, la funzione dei media che iniziavano a cogliere i particolari, dal modo con cui il leader guardava la folla, quasi sapendo che il suo primo piano sarebbe diventata un’icona del secolo, e che quel lungo corridoio umano di mani bianche che stringevano mani nere avrebbe rappresentato un affrancamento dalle ingiustizie subite ed una svolta nel modo di intendere il Programma sull’Emancipazione che proprio l’Abramo Lincoln, che osservava dall’alto del suo piedistallo, aveva promulgato esattamente un secolo addietro. E ancora sulla portata programmatica che non riguardava solo le disuguaglianze in ragione del colore della pelle, ma ogni discriminazione che non otteneva giustizia, non solo le ingiustizie presenti nel sistema statunitense, ma tutte le occasioni di conflitto fra le nazioni, risolte con la violenza e non con il dialogo.
Letta nel tempo, un’utopia: le situazioni si sono modificate ma i rapporti ad ogni livello non si può dire che siano migliorati. Ma anche l’utopia ha sempre avuto un peso nell’evoluzione del pensiero e, conseguentemente, nella definizione dei canoni attraverso i quali si è sviluppata la convivenza civile e sociale. Una utopia che si rafforza con l’innesto, in un pensiero che trae origine in una cultura ebraico-cristiana, quindi con connotazioni fortemente europee, della dichiarazione dei diritti dell’uomo, che ha diverse fonti e che si sintetizza nella dichiarazione dell’ONU del secondo dopo guerra. Le allusioni (“la giustizia scorrerà come acqua e il diritto come un fiume possente”), e le immagini di dolcezza rivolta ai bambini che “…. vivranno in un paese nel quale non saranno giudicati dal colore della pelle ….”, le metafore sul paese che verrà, che richiamano l’eloquenza del discorso della montagna e formulano auspici mai intrisi di odio, di vendetta o di ricorso alla violenza (era di quegli anni il suo contrasto ideologico con Malcom X), ma sempre ispirati all’integrazione positiva e alla concordia, confermano il forte radicamento con quella cultura. La sua vita fu spezzata da un assassino pochi anni dopo, ma il suo “I have a dream” ha contribuito non poco al miglioramento delle condizioni di vita e della partecipazione politica dei neri d’America se è vero che dal 2008 gli U.S.A. hanno avuto un Presidente di origini afro americane: Barak Obama.
E alla nostra formazione sociale e civile, quanto è servito interiorizzare fin da giovanissimi, quel grido “I have a dream”? Non è stato un momento di illusione al quale ne hanno fatto da contraltare molti altri di disillusione perché è rimasto un caposaldo del pensiero che si andava formando e che, per me e per tanti amici della mia generazione, si ispirava agli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa, alla “Populorum Progressio” di qualche anno dopo e alla maturazione di un impegno politico e sociale che si è sempre ispirato ai principi della solidarietà, della fratellanza e della condivisione. L’esserci riuscito solo in piccola misura non è da attribuire a presunte confusioni nel “grido” di Martin Luther King ma alle carenze della mia volontà ed alla limitatezza dei miei mezzi.
Raffaele Clò – Lugo